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Il virus nella rete

La pandemia Coronavirus ha messo ad eccezionale prova diversi aspetti della nostra vita, portandoci al limite dell’immaginazione e a volte della stessa sopravvivenza: resistenza allo stress, autonomia finanziaria, separazione sociale, bisogno di formazione e informazione tempestiva e tanto altro. Se c’è un’infrastruttura che - investita dallo spostamento massiccio verso surrogati digitali di quei bisogni - ha retto più di tutte, questa è internet.

Ebbene, la prima questione che incuriosisce è: come mai? Come mai la rete non ha ceduto e non è collassata come facevano le reti telefoniche analogiche il giorno della festa della mamma? Lo spiega bene Tom Wheeler (qui l'articolo) sottolineando che il dimensionamento della rete web viene progettato sul traffico dei maggiori provider di contenuti video (alla Netflix, per intenderci), nella fascia di picco 20:00-23:00. Una tale autostrada digitale è pressoché vuota nelle fasce mattutine e pomeridiane, quelle in cui il Corronavirus ci ha spinto a studiare, a lavorare e ad informarci online. Letta così la digitalizzazione in certa misura ci rassicura come pronto soccorso della separazione fisica in cui siamo costretti.

C’è una seconda questione però, che la prima apre con forza e che rivela uno dei costi nascosti del Coronavirus. Quante persone hanno accesso a quel pronto soccorso? Ovvero quanto vale il digital divide, la distanza tra chi ha e chi non ha accesso alle tecnologie dell'informazione? Qui il conto del Coronavirus in termini di non surrogabilità digitale di certe attività primarie, sale per una persona su due nel mondo. In Italia 3 persone su 10 non accedono alla rete e meno di un quarto della popolazione può sfruttare un collegamento a banda larga (dati 2018 dell’Agenda Digitale). Si badi che la difficoltà di accesso non è solo questione di copertura o banda. Parliamo di computers obsoleti, qualità della connessione bassa o costosa (dial-up) o la difficoltà di ricevere assistenza tecnica per risolvere un problema. Se da un lato però la pandemia sarà più amara per chi è digitalmente inibito, farà dall'altro da acceleratore della rete, spingendola in lungo e in largo a raccogliere nei prossimi anni anche gli utenti più lontani ed isolati.

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Ma fatto questo, arriviamo alla terza questione, che procede dall'essere sempre più in un mondo dove il potere è basato sull'economia della conoscenza (knowledge economy) e che rende quindi la questione decisamente sociale. Perché la rete è sempre più controllata da un’oligarchia di super-piattaforme (guidate da Microsoft, Apple, Amazon, Google, Facebook, Tencent e Alibaba) che concentrano un valore digitale che ha oramai sostituito lo stesso denaro come simbolo di ricchezza e di potere. Oltre al noto dominio di Google sulla ricerca online o di Facebook nei social media, ci si dimentica facilmente che da WhattsApp (Facebook) e WeChat (Tencent) passa buona parte della messaggistica globale o che da sola AliPay (Alibaba) copre quasi l’intero mercato cinese dei pagamenti mobile.

I movimenti di mercato delle Big 7 non sono peraltro segreti: strategie di M&A e consolidamento, facilità di ingresso nei tradizionali settori industriali (si pensi all’automotive), attività di lobbying nei gangli della politica. E’ facile capire come una tale concentrazione di potere intorno all'informazione permetta, se lo si vuole, di inibire la libertà di espressione, di interrompere la condivisione di contenuti o di condizionare l’innovazione. Ovvero aumentare le diseguaglianze, invece di ridurle.

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La spinta alla digitalizzazione deve procedere di pari passo con una equa ridistribuzione del valore digitale che passa da regole antitrust, di governance e di responsabilità sociale non banali. Diversamente scenari alla Nemico Pubblico o Person of Interest saranno solo una versione da educande di come homo sapiens può intrappolare se stesso in una pericolosissima rete.

Chi progettò la rete e ne fu ostetrico capì bene l’immenso potere che avrebbe liberato, tanto da fondare un istituzione che da 30 anni si occupa di mantenere alta la guardia sulla libertà di espressione, la privacy, l’innovazione e sui diritti degli individui nell'esercitare le proprie scelte economiche.  

L'Electronic Frontier Foundation (EFF) fu fondata nel luglio del 1990 da Mitch Kapor, John Gilmore e John Perry Barlow (che gli appassionati dei Greatful Dead ricorderanno anche come paroliere del gruppo) e finanziata inizialmente dallo stesso Kapor, da un benefattore anonimo e da quello Steve Wozniak che nel 1975 frequentava l'Homebrew Computer Club a Palo Alto, un club di appassionati di elettronica e informatica dove incontrerà l’uomo con cui cambierà il mondo, un ragazzo di nome Steve Jobs.